Cinquanta sfumature di... rosso: il Minio
Torniamo oggi a raccontarvi qualcosa in più sul meraviglioso mondo del colore e dei pigmenti, in particolare su una sfumatura di rosso forte e decisa: il minio.
Ottenuto per macinazione del minerale omonimo, il minio è un ossido di piombo con formula chimica Pb3O4.
La denominazione “minio” ha dato adito a non pochi fraintendimenti, soprattutto in antichità. Ad esempio, Plinio il Vecchio nel suo Naturalis Historia (Liber XXXIII, cap. xxxviii-xxxix) chiama Minium il pigmento oggi noto come cinabro, mentre l’ossido di piombo era per lui il Minium Secondarium o Falsa Sandraca (Liber XXXII, cap. xl), vista la sua somiglianza visiva con il pigmento Realgar (il termine sandraca o sandracca indicava, per gli antichi, il solfuro di arsenico e non la resina estratta dalla conifera Tetraclinis articulata). Più avanti, Agricola nel De re metallica (1556) definisce Minium quello che per noi oggi è il minio. La confusione nella terminologia è da imputarsi, come per tanti altri pigmenti, coloranti e lacche, ad alchimisti e speziali che realizzavano e vendevano questi prodotti.
Non c’è stata una popolazione che non abbia utilizzato il minio per le proprie espressioni artistiche: ne sono state ritrovate tracce su antichi oggetti provenienti dall’Egitto, dalla Cina, dal Giappone, dalla Persia e dall’India e, non ultimo, da Roma. Utilizzato per dipingere dettagli e campiture di un bel rosso vivo, il minio tende ad annerire se utilizzato su pitture murali e in tempera. Al contrario, quest’ossido è piuttosto stabile se utilizzato in dipinti ad olio, probabilmente grazie alla formazione nel tempo di prodotti della saponificazione del piombo. Nel corso dei secoli si iniziò a creare misture di pigmenti a base di minio assieme ad altri ossidi o solfuri, con la finalità di realizzare dei rossi sempre più intensi e brillanti, destinati in particolar modo alla produzione di inchiostri per codici su carta e pergamena: è proprio per l’uso di questo bellissimo rosso che tali manufatti presero il nome di “codici miniati” e la piccola opera artistica dipinta “miniatura”. Il minio, inoltre, veniva adoperato come additivo per le preparazioni a bolo rosso di superfici dipinte o da dorare. Era poi spesso utilizzato come adulterante di pigmenti più preziosi, come il cinabro; allo stesso tempo, però, il minio è sensibile all’attacco dei solfuri e, quindi, può subire un degrado a contatto con il cinabro stesso.
Pagina estratta dal manoscritto miniato "Grande e general estoria", di Alfonso X il Saggio. Biblioteca del Monastero dell'Escorial (Madrid) |
Con lo sviluppo di nuove tecniche di produzione dei colori, si cominciò a a produrre un minio sintetico, dalle proprietà decisamente superiori rispetto alla sua versione naturale. La procedura prevedeva il riscaldamento della biacca ((PbCO3)2·Pb(OH)2) fino ad una temperatura di 425-430 °C: ciò permetteva l’evaporazione di acqua e anidride carbonica dalla struttura cristallina. Successivamente, si passò a scaldare il massicot (PbO) fino ad una temperatura di 450-470 °C, producendo tuttavia un pigmento tendente all’arancione: non tutto il monossido di piombo si trasforma in Pb3O4 e, pertanto, parti di pigmento giallo continuavano ad essere presenti nella polvere di minio sintetico, schiarendo il rosso acceso tipico del minio.
Per la sua tossicità, in epoca moderna l’utilizzo del minio è stato notevolmente ridotto: fino al XIX secolo, era sfruttato come base antiruggine per prodotti in ferro e oggi se ne può ritrovare qualche traccia in smalti ceramici e nella lavorazione dei vetri. Come per tutti i composti a base di piombo, il minio può portare gravi malattie all’uomo, se usato in grandi quantità e con una certa frequenza e questo ne ha causato il disuso.
Bibliografia:
- C. Cennini, “Il libro dell’Arte” a cura di F. Frezzato, i Colibrì, Neri Pozza Editore,
Vicenza, 2009
- N. Bevilacqua, l. Borgioli, I. Adrover Gracia, “I pigmenti nell’arte. Dalla preistoria
alla rivoluzione industriale”, collana i talenti, il Prato Editore, 2010
- S. P. Diodato, “i buoni colori di una volta”, Edizioni Menabò, 2010
Commenti
Posta un commento