C’era una volta il restauro
Come tutti i professionisti del mondo dei beni culturali ben sanno, quello del restauro è un concetto strettamente legato all’opera d’arte: ogni supporto, materiale ed elemento utilizzato, e quindi ogni opera d’arte, condiziona notevolmente l’operato di un restauratore e, di conseguenza, detta tempi e modi delle operazioni di restauro da eseguire. Il restauratore, ovviamente, avrà molte conoscenze a sua disposizione, dettate sia dall’esperienza, ma anche da anni e anni di studio . In particolar modo, egli avrà sviluppato molte competenze riguardanti i prodotti chimici da impiegare durante le fasi di restauro.
È proprio la chimica, o meglio, la rivoluzione chimica degli ultimi decenni che ha permesso di migliorare notevolmente le prestazioni di restauro su diverse tipologie di opere d’arte, dando la possibilità ai restauratori di realizzare, ad esempio, puliture sempre più selettive, poco aggressive e il meno tossiche possibili. Inoltre, la collaborazione sempre più frequente con laboratori scientifici e conservation scientists permette di ottimizzare i progetti di restauro, rendendoli sempre meno invasivi e rischiosi per l’integrità delle opere d’arte.
C’è stato un periodo della storia, però, in cui le conoscenze della chimica erano a dir poco empiriche e dove lo scienziato era poco più che un alchimista. Dunque, come si comportavano una volta i restauratori?
L’esperienza, quella diretta e pratica acquisita in bottega, era l’unica fonte di apprendimento delle conoscenze. Come i giovani pittori erano istruiti presso le botteghe dei grandi pittori, così anche i restauratori apprendevano le tecniche e le ricette tramandate dai propri maestri (e tutt’oggi, in alcuni settori come quello del restauro del mobile, è ancora così). Ed è proprio di ricette che bisogna parlare quando ci si riferisce alla produzione di solventi, impacchi, adesivi, colori da ritocco e vernici: ogni restauratore custodiva gelosamente il proprio ricettario personale, perfezionato e adattato negli anni. Andandoli a rileggere, questi ricettari non si discostano poi tanto dalle numerose informazioni contenute nel famigerato trattato “Il libro dell’Arte” di Cennino Cennini : si parla, infatti, di materie prime provenienti “dalla remota India”, oppure di tempi di attesa di “vari mesi” per produrre una vernice protettiva costituita da “12 parti di ambra” (anche il concetto di unità di misura della massa risulta essere un po’ vago).
Singolari, e talvolta audaci, erano i trattamenti che le opere d’arte dovevano subire da parte dei restauratori-alchimisti, al fine di tornare al loro originario splendore (sempre che tutto andasse secondo i piani…). Non era inusuale, infatti, utilizzare pomate caustiche o corrosive per ammorbidire specifiche tipologie di sporco presente sulla superficie pittorica. Un’altra tecnica abbastanza in voga tra i vecchi restauratori prevedeva l’utilizza di una fonte diretta di calore… INCENDIANDO LO STRATO DI SPORCO depositato sulla superficie del dipinto! Avete letto bene: dopo aver preso una serie di accortezze nei confronti della pellicola pittorica (come sigillare con una “colletta” eventuali pori e fessure), il restauratore stendeva, con l’aiuto di un pennello, un sottile strato di “ottimo alcool” sul quadro disposto orizzontalmente, dopodiché dava fuoco alla superficie. Una volta fatto bollire lo sporco e spento l’incendio con un panno intriso di acqua calda, il restauratore avrebbe ripulito il dipinto aiutandosi con una soluzione calda di alcool e acquaragia: il risultato era assicurato.
È facile pensare come, in questi casi, il rischio di disintegrare alcuni pigmenti fosse piuttosto elevato, nonostante gli antichi manuali di restauro suggerissero alcune precauzioni da adottare durante operazioni di pulitura di questo tipo; inoltre, il restauratore non era certamente meno lontano dell’opera dal rischiare la propria salute!!
Fortunatamente, i vecchi manuali e le antiche ricette di restauro sono considerate oggigiorno niente più che semplici ed interessantissimi trattati storici, da cui imparare la storia e l’evoluzione del restauro e da cui, alle volte, trarre delle buffe e curiose storie semi-scientifiche.
È proprio la chimica, o meglio, la rivoluzione chimica degli ultimi decenni che ha permesso di migliorare notevolmente le prestazioni di restauro su diverse tipologie di opere d’arte, dando la possibilità ai restauratori di realizzare, ad esempio, puliture sempre più selettive, poco aggressive e il meno tossiche possibili. Inoltre, la collaborazione sempre più frequente con laboratori scientifici e conservation scientists permette di ottimizzare i progetti di restauro, rendendoli sempre meno invasivi e rischiosi per l’integrità delle opere d’arte.
C’è stato un periodo della storia, però, in cui le conoscenze della chimica erano a dir poco empiriche e dove lo scienziato era poco più che un alchimista. Dunque, come si comportavano una volta i restauratori?
L’esperienza, quella diretta e pratica acquisita in bottega, era l’unica fonte di apprendimento delle conoscenze. Come i giovani pittori erano istruiti presso le botteghe dei grandi pittori, così anche i restauratori apprendevano le tecniche e le ricette tramandate dai propri maestri (e tutt’oggi, in alcuni settori come quello del restauro del mobile, è ancora così). Ed è proprio di ricette che bisogna parlare quando ci si riferisce alla produzione di solventi, impacchi, adesivi, colori da ritocco e vernici: ogni restauratore custodiva gelosamente il proprio ricettario personale, perfezionato e adattato negli anni. Andandoli a rileggere, questi ricettari non si discostano poi tanto dalle numerose informazioni contenute nel famigerato trattato “Il libro dell’Arte” di Cennino Cennini : si parla, infatti, di materie prime provenienti “dalla remota India”, oppure di tempi di attesa di “vari mesi” per produrre una vernice protettiva costituita da “12 parti di ambra” (anche il concetto di unità di misura della massa risulta essere un po’ vago).
I restauri disastrosi non sono solo quelli realizzati in antichità... Ecce Homo, restaurato nel 2012 da Cecilia Giménez, dilettante 81enne |
È facile pensare come, in questi casi, il rischio di disintegrare alcuni pigmenti fosse piuttosto elevato, nonostante gli antichi manuali di restauro suggerissero alcune precauzioni da adottare durante operazioni di pulitura di questo tipo; inoltre, il restauratore non era certamente meno lontano dell’opera dal rischiare la propria salute!!
Fortunatamente, i vecchi manuali e le antiche ricette di restauro sono considerate oggigiorno niente più che semplici ed interessantissimi trattati storici, da cui imparare la storia e l’evoluzione del restauro e da cui, alle volte, trarre delle buffe e curiose storie semi-scientifiche.
Bibliografia:
- A. Conti, “Manuale di Restauro”, Einaudi
- a cura di Gino Piva, “L’arte del restauro. Il restauro dei dipinti nel sistema antico e moderno”, Ulrico Hoepli Editore
- C. Cennini, “Il libro dell’Arte”
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