Cinquanta sfumature di… rosso: il cinabro
Se c’è un argomento di cui non smetterete mai di leggere in questo blog è certamente quello del colore e delle sue infinite sfumature. Che abbiano origine organica o meno, pigmenti, coloranti e lacche affascinano da sempre l’uomo che li ha cercati, sperimentati e usati fin dall’antichità.
Il colore di cui parleremo oggi è (o meglio era) utilizzato normalmente sotto forma di pigmento, di origine minerale come l’azzurrite e il lapislazzuli, ma pericoloso quasi quanto il verde di Scheele: il cinabro.
Si tratta di un pigmento ottenuto dal minerale naturale corrispondente, dal colore rosso vivo tendente all’aranciato. Dal punto di vista chimico, il cinabro è un solfuro di mercurio (HgS), solitamente impuro in natura, con inclusioni di argille, ossidi di ferro e talvolta bitume. Era conosciuto e molto usato dai Greci, a partire dal XVI secolo a.C., e dai Romani, ma se ne ritrovano tracce già in tempi più antichi in Asia Minore e Cina.
Nel Medioevo, l’utilizzo del pigmento naturale fu soppiantato dal cinabro di sintesi, chiamato Vermiglione. La nomenclatura adottata per il pigmento artificiale deriva dal latino vermiculus, ovvero piccolo verme. Perché un pigmento di sintesi inorganico veniva descritto con un nome inerente al mondo organico? La spiegazione va ricercata agli inizi del Medioevo. Nel IV secolo, infatti, ci si riferiva alla lacca di Kermes, detta altrimenti cremisi, con i termini baca e granum, per la forma assunta dagli insetti sui rami delle querce infestate, oppure con il sinonimo di vermiculum, appunto. Era convinzione comune, in epoche passate, che colori simili avessero una composizione simile, dunque pigmenti diversi potevano essere chiamati con lo stesso nome. Il termine cinabro, invece, è riconducibile al greco kinnabaris (latino cinnabaris). Stando ad altre fonti, invece, l’origine del nome sarebbe araba: oltre al colore ed alle ricette per realizzarlo artificialmente, gli Arabi introdussero in Europa anche il termine zinjafr, da cui cinabro.
Parlando proprio delle tecniche arabe di produzione del pigmento cinabro, quella più utilizzata era la cosiddetta tecnica “a secco”. La lavorazione prevedeva che zolfo e mercurio venissero chiusi ermeticamente in un recipiente e scaldati. Ciò che se ne ricavava era solfuro di mercurio α-HgS (metacinnabarite o Aetiopis mineralis, polimorfo del cinabro) che, per la sua forma cristallina cubica, risulta nero. Riscaldato a sua volta a 580°C, il solfuro di mercurio sublimava e successivamente, raffreddando in una storta, ricondensava sotto forma di α- HgS rosso. Nelle ricette medievali si raccomanda di prendere una parte di argento vivo (antico nome per descrivere il mercurio) e due di solfo giallo ed arrostirli fino ad ottenere il colore desiderato. una volta raffreddato e raccolto, il pigmento veniva lavato con lisciva, per eliminare lo zolfo libero, e poi in acqua.
L’estrazione del minerale cinabro, invece, avveniva principalmente in Spagna, dalle miniere di Almadén, luogo probabilmente identificato da Plinio come Sisopo. Altra fonte di approvvigionamento era la Colchide, sul Mar Nero.
È noto sin dai tempi più antichi il fenomeno dell’annerimento del cinabro all'aperto. Il fattore scatenante di questa reazione è probabilmente l’irraggiamento solare. Infatti, l’esposizione ai raggi ultravioletti con una lunghezza d’onda variabile tra il 400 ed i 570 nm (area di assorbimento del cinabro) causa la trasformazione della struttura α- HgS trigonale nel corrispondente cubico dal colore scuro. Come prodotto intermedio della reazione è possibile trovare, a volte, un altro polimorfo dal nome ipercinabro (β-Hgs, esagonale). Altro fattore che potrebbe influenzare il cambiamento di stato del cinabro è la presenza di umidità e di cloruri. L’annerimento è, a volte, parzialmente reversibile ponendo la superficie alterata al buio. In tal caso, risultati migliori sono stati ottenuti nelle pitture murali in cui il pigmento era parzialmente libero in superficie, come nel caso di tempera a uovo o in quelli dove il colore risulta, addirittura, privo di medium.
Il rosso cinabro era considerato una sostanza sacra e di alto valore estetico tra i Romani: vi si dipingeva il volto delle statue di Giove durante le festività ed era steso in grandi quantità come colore di base delle superfici affrescate, sia negli appartamenti di città sia nelle ville d’otium costruite sulla costa campana. Inoltre, era un valido alleato nella beauty routine delle donne Cinesi, Egizie e Romane, che lo utilizzavano come pigmento sul viso.
Pur non rientrando nella categoria dei pigmenti più costosi, il cinabro era comunque soggetto a contraffazione. I materiali più frequentemente addizionati al pigmento originale erano la polvere di mattone e il minio e alcune fonti inglesi mettevano bene in guardia gli acquirenti dalle adulterazioni. Infatti, uno dei metodi per il riconoscimento di un pigmento non puro consisteva nello scaldare il cinabro con la polvere di carbone: il piombo contenuto nell’ipotetico minio presente si sarebbe depositato sul fondo e, messo a confronto con il pigmento non riscaldato, avrebbe rivelato la sua presenza con un peso maggiore.
Il colore di cui parleremo oggi è (o meglio era) utilizzato normalmente sotto forma di pigmento, di origine minerale come l’azzurrite e il lapislazzuli, ma pericoloso quasi quanto il verde di Scheele: il cinabro.
Si tratta di un pigmento ottenuto dal minerale naturale corrispondente, dal colore rosso vivo tendente all’aranciato. Dal punto di vista chimico, il cinabro è un solfuro di mercurio (HgS), solitamente impuro in natura, con inclusioni di argille, ossidi di ferro e talvolta bitume. Era conosciuto e molto usato dai Greci, a partire dal XVI secolo a.C., e dai Romani, ma se ne ritrovano tracce già in tempi più antichi in Asia Minore e Cina.
Nel Medioevo, l’utilizzo del pigmento naturale fu soppiantato dal cinabro di sintesi, chiamato Vermiglione. La nomenclatura adottata per il pigmento artificiale deriva dal latino vermiculus, ovvero piccolo verme. Perché un pigmento di sintesi inorganico veniva descritto con un nome inerente al mondo organico? La spiegazione va ricercata agli inizi del Medioevo. Nel IV secolo, infatti, ci si riferiva alla lacca di Kermes, detta altrimenti cremisi, con i termini baca e granum, per la forma assunta dagli insetti sui rami delle querce infestate, oppure con il sinonimo di vermiculum, appunto. Era convinzione comune, in epoche passate, che colori simili avessero una composizione simile, dunque pigmenti diversi potevano essere chiamati con lo stesso nome. Il termine cinabro, invece, è riconducibile al greco kinnabaris (latino cinnabaris). Stando ad altre fonti, invece, l’origine del nome sarebbe araba: oltre al colore ed alle ricette per realizzarlo artificialmente, gli Arabi introdussero in Europa anche il termine zinjafr, da cui cinabro.
Parlando proprio delle tecniche arabe di produzione del pigmento cinabro, quella più utilizzata era la cosiddetta tecnica “a secco”. La lavorazione prevedeva che zolfo e mercurio venissero chiusi ermeticamente in un recipiente e scaldati. Ciò che se ne ricavava era solfuro di mercurio α-HgS (metacinnabarite o Aetiopis mineralis, polimorfo del cinabro) che, per la sua forma cristallina cubica, risulta nero. Riscaldato a sua volta a 580°C, il solfuro di mercurio sublimava e successivamente, raffreddando in una storta, ricondensava sotto forma di α- HgS rosso. Nelle ricette medievali si raccomanda di prendere una parte di argento vivo (antico nome per descrivere il mercurio) e due di solfo giallo ed arrostirli fino ad ottenere il colore desiderato. una volta raffreddato e raccolto, il pigmento veniva lavato con lisciva, per eliminare lo zolfo libero, e poi in acqua.
L’estrazione del minerale cinabro, invece, avveniva principalmente in Spagna, dalle miniere di Almadén, luogo probabilmente identificato da Plinio come Sisopo. Altra fonte di approvvigionamento era la Colchide, sul Mar Nero.
È noto sin dai tempi più antichi il fenomeno dell’annerimento del cinabro all'aperto. Il fattore scatenante di questa reazione è probabilmente l’irraggiamento solare. Infatti, l’esposizione ai raggi ultravioletti con una lunghezza d’onda variabile tra il 400 ed i 570 nm (area di assorbimento del cinabro) causa la trasformazione della struttura α- HgS trigonale nel corrispondente cubico dal colore scuro. Come prodotto intermedio della reazione è possibile trovare, a volte, un altro polimorfo dal nome ipercinabro (β-Hgs, esagonale). Altro fattore che potrebbe influenzare il cambiamento di stato del cinabro è la presenza di umidità e di cloruri. L’annerimento è, a volte, parzialmente reversibile ponendo la superficie alterata al buio. In tal caso, risultati migliori sono stati ottenuti nelle pitture murali in cui il pigmento era parzialmente libero in superficie, come nel caso di tempera a uovo o in quelli dove il colore risulta, addirittura, privo di medium.
Il rosso cinabro era considerato una sostanza sacra e di alto valore estetico tra i Romani: vi si dipingeva il volto delle statue di Giove durante le festività ed era steso in grandi quantità come colore di base delle superfici affrescate, sia negli appartamenti di città sia nelle ville d’otium costruite sulla costa campana. Inoltre, era un valido alleato nella beauty routine delle donne Cinesi, Egizie e Romane, che lo utilizzavano come pigmento sul viso.
Pur non rientrando nella categoria dei pigmenti più costosi, il cinabro era comunque soggetto a contraffazione. I materiali più frequentemente addizionati al pigmento originale erano la polvere di mattone e il minio e alcune fonti inglesi mettevano bene in guardia gli acquirenti dalle adulterazioni. Infatti, uno dei metodi per il riconoscimento di un pigmento non puro consisteva nello scaldare il cinabro con la polvere di carbone: il piombo contenuto nell’ipotetico minio presente si sarebbe depositato sul fondo e, messo a confronto con il pigmento non riscaldato, avrebbe rivelato la sua presenza con un peso maggiore.
Bibliografia:
- C. Cennini, “Il libro dell’Arte” a cura di F. Frezzato, i Colibrì, Neri Pozza Editore,
Vicenza, 2009
- N. Bevilacqua, L. Borgioli, I. Adrover Gracia, “I pigmenti nell’arte. Dalla preistoria
alla rivoluzione industriale”, collana i Talenti, il Prato Editore, 2010
- P. Ball, “Colore, una biografia”, BuR Saggi, Rizzoli, 2010
- S. P. Diodato, “I buoni colori di una volta”, Edizioni Menabò, 2010
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