Ricerca e Stradivari: intervista a Giacomo Fiocco (Laboratorio Arvedi di Diagnostica Non-Invasiva presso il Museo del Violino di Cremona).
Le indagini non invasive svolte presso il Laboratorio Arvedi di Diagnostica Non-Invasiva. Source: here |
Oggi incontriamo Giacomo Fiocco, attualmente ricercatore del Laboratorio Arvedi di Diagnostica Non-Invasiva dell’Università di Pavia presso il Museo del Violino di Cremona e dottorando in chimica e scienze dei materiali dell’Università di Torino. Il Laboratorio Arvedi è immerso in un contesto nel quale la ricerca scientifica si trova a stretto contatto con la realtà museale: l’intero gruppo di ricerca, interamente composto da conservation scientists, svolge infatti le sue attività negli spazi del Museo del Violino di Cremona. Il connubio tra ricerca e museo, non ancora saldamente diffuso in Italia, non solo conduce all’avanzamento delle conoscenze scientifiche, ma contribuisce anche alla valorizzazione del Bene Culturale, inserito e studiato in un ambiente multi-disciplinare. Le attività di ricerca, sviluppate spesso in sinergia con il museo, sono focalizzate allo studio e alla conservazione dei materiali degli strumenti musicali mediante l’uso di tecniche di analisi prevalentemente non invasive.
F.D.T. Vorrei cominciare questa chiacchierata partendo proprio da due recenti articoli pubblicati dal vostro gruppo sulle riviste EPJ Plus e Coatings, il primo in collaborazione con il Dipartimento di Fisica dell’Università di Torino e con Elettra Sincrotrone di Trieste dal titolo “Synchrotron radiation micro-computed tomography for the investigation of finishing treatments in historical bowed string instruments: issues and perspectives” (clicca qui) e il secondo che ha visto anche la partecipazione di un gruppo di ricerca polacco dell’Università di Toruń intitolato “A Micro-Tomographic Insight into the Coating Systems of Historical Bowed String Instruments” (Open Access, clicca qui).
In questi lavori si utilizzano due differenti approcci tomografici per studiare gli strati di finitura di alcuni frammenti provenienti da violini restaurati nel passato e realizzati importanti maestri liutai. Prima di tutto, sarebbe interessante sapere per chi non è dell’ambito (come me, ndr) l’importanza delle vernici per i violini e se anch’esse contribuiscono nel dare un caratteristico timbro sonoro allo strumento stesso a seconda, per esempio, dello spessore della vernice, degli strati, della grandezza delle particelle o della loro distribuzione.
G.F. Ciao Francesca e grazie per l’invito! Sì, sicuramente le vernici e i trattamenti che i liutai effettuano (ed effettuavano in passato, soprattutto!) sui loro strumenti giocano un ruolo determinante, sia estetico che acustico. Abbiamo dimostrato come cambi la sonorità del violino durante le sue diverse fasi di finitura: dal legno non trattato all’ultimo strato di vernice. In particolare, è apparso evidente come la preparazione a base di colla faccia cambiare completamente il suono dello strumento, molto più dello strato di vernice esterna che mantiene, viceversa, un ruolo legato prevalentemente all’estetica dello strumento.
Negli ultimi due articoli ai quali hai accennato, invece, l’interesse è focalizzato sulla ricostruzione (completamente non invasiva, importante!) degli strati di finitura di alcuni frammenti di strumenti storici originali, nella maggior parte dei casi formati da leganti organici (colle e vernici oleo-resinose oppure ad alcol) e particelle inorganiche, utilizzate come fillers preparatori o pigmenti. Le combinazioni sono tantissime e non abbiamo praticamente mai trovato una stratigrafia uguale a un’altra. Per lo studio di questi materiali, la potenzialità della micro-TAC realizzata al sincrotrone Elettra di Trieste ci ha permesso di arrivare ad una risoluzione di 1 micron, compatibile con gli spessori da indagare, e di ottenere delle immagini tomografiche mai ottenute prima nel campo della ricerca sugli strumenti musicali.
F.D.T. E’ interessante riflettere sulla apparente semplicità di un violino che, come la maggior parte delle opere d’arte, è invece un sistema eterogeneo e di come sia, forse, essenziale un approccio multi-analitico. Nel vostro caso sembrerebbe essere preferibile l’uso combinato di tecniche non distruttive (o al massimo, micro-distruttive): esse vi permettono di rispondere alla maggior parte degli interrogativi che vi ponete? Sappiamo che a volte l’impossibilità di campionare per preservare il materiale può essere un ostacolo per ottenere alcune risposte (composizione interna del campione, ad esempio).
G.F. Il nostro vincolo principale è quello legato alla totale impossibilità di effettuare prelievi sulle superfici dei violini custoditi nel Museo del Violino. Questo ci ha portato a sviluppare un protocollo strettamente non-invasivo che permetta di arrivare all’identificazione del sistema stratigrafico e alla caratterizzazione dei materiali che ne fanno parte. Per farlo, ci affidiamo a tecniche spettroscopiche molto diffuse (XRF e IR in riflessione) e ad un apparato di imaging pensato per accogliere strumenti musicali anche di grandi dimensioni. I limiti più grandi, oltre a quelli strumentali, sono quelli legati all’assenza di una “ricetta storica” dal quale prendere spunto. In questi anni siamo riusciti a caratterizzare, anche grazie ad alcuni importanti lavori di altri gruppi di ricerca internazionali, un buon numero di materiali sicuramente selezionati da Stradivari e colleghi! Bisogna anche dire che, nonostante il nome del Lab ispiri un totale approccio non-invasivo, lo studio passa inevitabilmente anche attraverso l’utilizzo di tecniche microinvasive e microdistruttive, che spesso risultano le più informative. Collaboriamo con molti gruppi di ricerca in Italia e in Europa che ci permettono di utilizzare tecnologie decisamente affascinanti! La possibilità di utilizzarle passa sempre dalla possibilità di effettuare prelievi (decisione presa dai proprietari dei violini) e dalla reale necessità di prelevare.
F.D.T. Passiamo alle tecniche utilizzate: tomografia assiale computerizzata (micro-TAC) e la tomografia ottica in coerenza di fase (OCT). Quale è stata la strategia che vi ha portato ad adottare queste tecniche? Esse sono complementari o vi è una preferenza di una rispetto all’altra? C'è una evidente differenza tra le due tecniche quando si conducono queste analisi? Oppure situazioni nelle quali è preferibile utilizzare la micro-TAC piuttosto che la OCT o viceversa?
G.F. Sono entrambi approcci non-invasivi ma profondamente diversi sia dal punto di vista tecnico che da quello pratico. La micro-TAC funziona come una normale tomografia a raggi-X e permette di generare un’immagine tridimensionale unendo insieme diverse scansioni effettuate ad angoli differenti e progressivi. Le differenze con una TAC (comunemente utilizzata in ospedale) riguardano solo il volume indagato (inferiore a 2 mm3 ) e la risoluzione (fino ad 1 micron), oltre al fatto che per effettuarla è necessario un sincrotrone con un anello lungo centinaia di metri. La tomografia ottica (OCT) è invece uno strumento portatile che utilizza una radiazione coerente nell’infrarosso (750-930 nm) e permette di ricostruire un tomogramma che porta informazioni sulla stratigrafia superficiale. Sono state selezionate proprio perchè sono risultate essere in parte complementari (brava Francesca!): se la TAC riesce a dare un’informazione dettagliata sulle fasi inorganiche e una visione ad alta risoluzione del volume indagato, l’OCT permette di osservare la successione stratigrafica e di misurarne lo spessore con grande precisione. Due informazioni differenti che permettono di avere una panoramica completa di quello che stiamo guardando! Penso che la possibilità di utilizzarne una o l’altra (o entrambe) debba essere valutata direttamente in relazione alla tipologia di materiale da indagare: l’OCT funziona molto bene con materiali attraverso i quali la luce riesce a passare, la micro-TAC, spesso, viene usata esattamente all’opposto.
F.D.T. Quali sviluppi futuri apre questo lavoro? E quali sono le domande ancora aperte?
G.F. Gli sviluppi riguardano un approccio sempre meno invasivo per lo studio di questi particolari manufatti! Riuscire a ricostruire completamente, attraverso risultati strettamente non-invasivi, la stratigrafia di un violino, i trattamenti effettuati durante la costruzione e i materiali applicati negli strati di finitura è un obiettivo non solo del Laboratorio Arvedi ma anche del Museo del Violino e di tutta la comunità di liutai (più di 150 botteghe solo nella città di Cremona). La liuteria cremonese è patrimonio immateriale dell’UNESCO dal 2012 e ha bisogno (e voglia, soprattutto) di ricevere continuamente spunti e testimonianze dal passato che noi proviamo a fornire attraverso la ricerca scientifica.
F.D.T. Un'ultima domanda, un po’ più generale sul lavoro del Conservation Scientist. Il Laboratorio Arvedi presso il Museo del Violino rappresenta un esempio virtuoso del felice matrimonio tra scienza e Beni Culturali ed è ciò che dovrebbe accadere in tutte le realtà del territorio Italiano. Questa “macchina” funziona, immagino, grazie alla collaborazione di figure differenti (ricercatori, liutai, restauratori, responsabili del museo): secondo te questo “Modello Cremona” può essere effettivamente esportato in altre realtà? Se sì, con quali attività si può divulgare il lavoro dello scienziato della conservazione per far sì che il nostro lavoro sia valorizzato e considerato fondamentale per la società contemporanea?
G.F. Come dici tu, il sistema funziona perchè il lavoro è focalizzato su un interesse comune: gli strumenti musicali! Cremona possiede un “saper-fare” lungo ormai quasi 400 anni anche se, purtroppo, ne ha dimenticato la parte fondamentale per quasi un secolo, quella che coinvolge la tradizione di Stradivari e dei suoi maestri. Tutte le parti in causa, che hai già citato, stanno lavorando verso la riscoperta di quelle tradizioni ormai conosciute solo in parte e noi, per farlo, ci mettiamo l’approccio scientifico. Siamo 4 ricercatori (Tommaso Rovetta, Claudia Invernizzi e Michela Albano, oltre a me), coordinati dal Professor Malagodi, tutti laureati in Tecnologie per i Beni Culturali (LM-11) in città diverse (io a Torino!) e ognuno di noi sta maturando negli anni un’esperienza rivolta alla conoscenza di questi oggetti bellissimi e alla capacità di sviluppare un percorso realmente multi-disciplinare che si intreccia con le altre realtà del “Modello Cremona”. La comunicazione tra figure professionali così diverse non è affatto scontata, ma si impara a conoscersi e a capirsi (o almeno, ce la faremo!). Credo possa essere un sistema virtuoso, esportabile in ogni realtà che vuole (e ha le risorse culturali e materiali) valorizzare i Beni Culturali legati al suo territorio. In questo momento, il ruolo del Conservation Scientist (partendo quasi da zero) sta lentamente crescendo anche grazie a gruppi di giovani ricercatori ed esperti di diagnostica che vogliono (giustamente!) farne una professione mettendoci la faccia. Ritengo che lavorare bene (avendone la possibilità!), nella direzione tracciata da alcuni anni, sia la miglior pubblicità per questa splendida professione e il modo migliore per sancire definitivamente la necessità di una figura lavorativa che possa riunire le nostre competenze. Sperando che qualcuno se ne accorga!
Il gruppo di ricerca del Laboratorio Arvedi di Diagnostica Non-Invasiva capitanato dal Prof. Malagodi. |
F.D.T. Caro Giacomo, ti ringrazio a nome del team di RCH per averci dato la possibilità di parlare di questi studi interessantissimi e che certamente meritano una ampia diffusione. Auguriamo buon lavoro a te e a tutto il gruppo del Laboratorio Arvedi!
G.F. Grazie a te e a tutto il team di “researchers”!
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