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News from Diagnostic World: la rinascita dei dagherrotipi danneggiati

Fig.1: Uno dei due dagherrotipi, provenienti dalla National Gallery of Canada, utilizzati per lo studio condotto dal team di ricercatori dell’University of Western Ontario.
A) L’immagine mostra come si presenta il dagherrotipo ad occhio nudo.
B) Ciò che risulta visibile dell’immagine dopo l’applicazione della tecnica sperimentale di Imaging XRF sul dagherrotipo, in cui sono messi evidenza gli atomi di mercurio.

No, non è stata necessaria una buona magia per rendere nuovamente visibili, dopo decine di anni, alcuni dagherrotipi gravemente danneggiati: sono serviti soltanto molta chimica e un colpo di fortuna. 

L’importante e inaspettata scoperta è stata condotta da un gruppo di ricercatori dell’University of Western Ontario, capeggiato dalla studentessa di dottorato in chimica Madalena Kozachuk. Lo studio condotto dal team, il quale ha sviluppato una tecnica sperimentale di Imaging XRF (Fluorescenza a raggi X), non invasiva e non distruttiva, aveva come obiettivi l’analisi e la caratterizzazione le diverse fenomenologie di degrado che portano al completo oblio delle immagini contenute in queste fotografie ante litteram. Tuttavia, con grande sorpresa ed entusiasmo, gli studiosi sono riusciti a restituire i volti contenuti nei due ritratti analizzati, in particolar modo grazie alla presenza di atomi di mercurio, depositati sulla lastra fotosensibile durante il processo di sviluppo dell’immagine (Fig. 1, B).

Difatti, il dagherrotipo non è altro che un’immagine ottenuta con una particolare tecnica, sviluppata all’incirca nel 1838 da Louis Daguerre, dal cui cognome prende il nome questo processo fotografico. Per realizzare un dagherrotipo era necessaria una lastra di rame, debitamente lucidata a specchio e ricoperta da un sottile strato di argento: la superficie veniva resa sensibile alla luce grazie ai vapori di iodio, i quali si combinavano chimicamente con l’argento, producendo ioduro di argento. Dopo questo processo la lastra, diventata di colore giallo e resa fotosensibile, poteva essere finalmente inserita nella camera oscura ed esposta alla luce per un periodo non superiore ai 45 minuti, immortalando il soggetto prescelto: tendenzialmente, si trattava di ritratti o, in misura minore, di panorami. Quando la luce, dunque, interagiva con la superficie fotosensibile, la catalizzazione comportava la formazione di particelle di argento, le quali erano proporzionali in densità all’intensità della luce: ciò significa che le zone più chiare dell’immagine, quindi maggiormente esposte, mostravano una maggiore densità di particelle di argento; viceversa, le parti meno esposte risultavano più scure, in quanto era assai minore, se non nulla, la presenza del metallo. Tuttavia, l’immagine impressa, appena latente in questa fase, risultava visibile solamente dopo aver esposto la lastra ai vapori di mercurio a 60°C, i quali andavano a depositarsi sulle porzioni dell’immagine colpite dalla luce, in relazione alla quantità di luminosità che avevano ricevuto durante il processo, producendo delle particelle di amalgama di mercurio e argento. Dopo il fissaggio, condotto mediante l’immersione della lastra in una soluzione di tiosolfato di sodio, che comportava l’eliminazione di tutti gli eventuali residui di ioduro di argento, l’immagine si presentava ben visibile in bianco e nero sulla lastra; tuttavia, è possibile trovare anche esemplari colorati, attraverso l’uso successivo di pigmenti.

La tecnica della dagherrotipia caratterizza un periodo storico abbastanza circoscritto: infatti, venne largamente adoperata solamente per 20 anni circa, ovvero fra il 1838 al 1860. Questo breve periodo d’uso può essere ricondotto ad uno dei più evidenti limiti della tecnica, ovvero la produzione di una fotografia singola e non riproducibile.

In sostanza, gli studiosi canadesi sono riusciti, soprattutto grazie al Sincrotrone CHESS (Cornell High Energy Synchrotron Source), a mappare la distribuzione del mercurio: è stato proprio questo elemento a fornire il maggior numero di informazioni, in quanto svolgeva un ruolo fondamentale nel processo di produzione dell’immagine. L’estesa corrosione che interessava i ritratti, quindi, non ha compromesso in alcun modo le particelle di mercurio e, di conseguenza, l’immagine in sé, permettendo, inoltre, una maggiore comprensione circa la metodologia e la tecnica di formazione di queste immagini.

Dunque, grazie allo studio del team canadese, nonostante l’obiettivo originario fosse diverso, è stato possibile rendere nuovamente visibili due dagherrotipi provenienti dalla National Gallery of Canada, con la speranza che siano solamente i primi di una lunga serie di esemplari di cui poter fruire in futuro nei musei di tutto il mondo.



- Kozachuk M. S., Sham T. K., Martin R. R., Nelson A. J., Coulthard I., McElhone J. P., Recovery of Degraded-Beyond-Recognition 19th Century Daguerreotypes with Rapid High Dynamic Range Elemental X-ray Fluorescence Imaging of Mercury L Emission, Scientific Reports, vol. 8, 2018: https://www.nature.com/articles/s41598-018-27714-5

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