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I materiali del cinema, la settima arte

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Non è la prima volta che all’interno di questo blog leggete di beni audiovisivi, della loro importanza artistica e culturale o del loro restauro. Ma cosa sono concretamente? Qual è il materiale (o i materiali) di cui si compongono i supporti analogici su cui vengono impresse le immagini, che si tramuteranno in fotografie e film? In sintesi: cosa sono le pellicole fotografiche e cinematografiche?
 
Fotogrammi e traccia audio su pellicola
Sostanzialmente, le pellicole moderne che fino a pochi anni fa, prima dell’avvento del digitale, erano utilizzate nel mondo della settima arte, non erano altro che lunghe strisce di poliestere (PET) forate sui lati, su cui erano spalmati diversi strati di emulsione di gelatina e particelle sensibili alla luce. Sul supporto così preparato erano impressionati, per mezzo della
luce, piccoli fermoimmagine (i fotogrammi) e, successivamente, era aggiunta la traccia audio, sotto forma di linea continua più o meno ondulata. Il PET donava a questo supporto flessibilità e resistenza alla trazione, oltre ad impedire la combustione delle pellicole stesse.

Prima di arrivare a questa forma più o meno stabile di supporto, la pellicola cinematografica ha subìto, nella sua storia, diverse evoluzioni e migliorie. Tutto nacque verso la fine del XIX secolo quando George Eastman, fondatore della storica azienda Kodak, mise a punto e commercializzò un nastro di celluloide (nitrato di cellulosa), sul quale era spalmata un’emulsione gelatinosa di sali di alogenuro d’argento: infatti, prendendo in prestito la tecnologia già in uso per impressionare immagini fotografiche su lastre metalliche o di vetro, si combinavano sali d’argento dell’acido nitrico (AgNO3) e sali di alogeni, creando così cristalli fotosensibili, da addizionare alla gelatina animale. La quantità e la dimensione dei cristalli erano i responsabili della risoluzione, della qualità e della “grana” delle immagini impressionate. Uno strato protettivo al di sopra dell’emulsione, un adesivo tra l’emulsione ed il supporto e uno stato “anti-alone” incollato al di sotto del supporto, completano la stratigrafia della pellicola cinematografica tradizionale.
Stratigrafia di una pellicola cinematografica
Sfortunatamente, la pellicola di celluloide e gelatina è estremamente instabile: la celluloide è altamente infiammabile, così come ci racconta il regista Giuseppe Tornatore in una scena del film
Scena dall film "Nuovo Cinema Paradiso" di G. Tormatore, 1988
“Nuovo Cinema Paradiso”. La gelatina nel tempo tende a sciogliersi (formando quello che in gergo si chiama “miele”). Successivamente, la pellicola tende a creare delle scaglie, soprattutto se conservata arrotolato in spire, come avveniva nelle tradizionali scatole rotonde di latta, le cosiddette “pizze”. Ultima fase del degrado del supporto è la sua trasformazione in un unico blocco rigido non più srotolabile ed estremamente fragile: questo è il punto di non ritorno, tutto il girato è completamente perso.

Per risolvere questi problemi, sono stati sviluppati nel tempo diversi e migliori supporti per la produzione cinematografica (e anche fotografica): si è infatti passati, già a partire degli anni ’30 del 1900, al triacetato di cellulosa, in cui si sostituisce il processo della nitrazione della cellulosa all’utilizzo di acido acetico ed anidride acetica in presenza di catalizzatori (acido solforico). La pellicola di triacetato fu distribuita in larga scala a partire dal 1950 fino a che, negli anni ’90, fu sostituita dall’ancor più stabile PET.
Pellicole cinematografiche degradate

Contemporaneamente all’evoluzione del nastro di supporto, anche il modo in cui le immagini venivano impressionate cambiò radicalmente. Il cinema è nato in bianco e nero, con pellicole sensibilizzate “al negativo” rispetto ai chiaroscuri delle immagini reali. Le prime pellicole utilizzavano emulsioni che reagivano a lunghezze d’onda che andavano dal violetto al blu, il che produceva immagini con poche gradazioni sulla scala del grigio e perdita di alcuni dettagli. Nel tempo, sviluppando emulsioni sempre più sofisticate, agli inizi del XX secolo si arrivò alla pellicola pancromatica, ovvero sensibile a tutte le lunghezze d’onda del visibile, donando ai filmati in bianco e nero molte più sfumature, oltre ad una risoluzione migliore dell’immagine. Nel 1936 la Kodak fece un passo avanti commercializzando la Kodachrome, ovvero una pellicola in grado di restituire immagini direttamente in “positivo” e a colori, eliminando il passaggio negativo-positivo.
Ovviamente, assieme ai nuovi supporti, subentrarono una notevole quantità di formati video, alcuni famosissimi tanto da diventare standard come il 35mm (ancora usato) e il Super8, altri durati solo qualche anno e definitivamente abbandonati. Uno degli ultimi formati prodotti e sempre più usati al cinema oggigiorno è L’IMAX, ovvero Image MAXimum.

Dopo questo piccolo, breve e spero esaustivo excursus dietro le quinte della magia della settima arte, i più curiosi potranno trovare qui un breve filmato realizzato dall’Istituto Luce, in cui è possibile vedere come si producessero le pellicole fotosensibili negli anni ’40 del secolo scorso.


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